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Marco SCALABRINO – Parleremo dell’arte che è più buona degli uomini

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Parleremo dell'arte vol  1 - SAGGI

Prefazione di Pietro Civitareale

Nell’uso corrente, critica vuol dire sinteticamente “scelta del meglio” e, se poi ci riferiamo alla letteratura, il problema della critica letteraria si apre da molti angoli e secondo diverse sollecitazioni. Ecco allora la critica nella poesia, la critica cioè che si determina all’interno della vita stessa della poesia nel suo prodursi; ecco la critica dei poeti agli altri poeti, la critica cioè che si attua su di un piano paritario di specializzazione e di affinità operative, ed ecco la critica della poesia intesa come attività appropriata ed orientata, per se stessa, al giudizio secondo la linguistica, la sociologia, la psicoanalisi, la filosofia, eccetera. Le domande, e le risposte che ne scaturiscono, possono essere molte e sommuovono tutto il contesto del discorso generale sul tema.

Leggendo questi “Saggi di poesia dialettale siciliana” di Marco Scalabrino, poeta ed insieme “lettore” di poesia, appare subito evidente che ci troviamo di fronte ad un tipo di approccio critico onnicomprensivo, nel senso che l’impulso di conoscere va oltre l’esperienza particolare unitamente al bisogno di prendere coscienza di come prove eterogenee possano essere collocate sotto una stessa definizione, sotto una comune etichetta, secondo un metodo che tende al recupero del complesso dei rilievi che emergono da una indagine non pregiudicata e che tenga conto di tutti i dati rilevati e rilevabili, nell’intento di tracciare i confini di una “lettura” aperta, continuamente disposta alla revisione, e contro pretese assolutistiche ed esiti esaustivi.

Che si tratti, ad esempio, dell’aspetto filologico dell’opera poetica di Alessio Di Giovanni (di una scrittura cioè che fa presa sull’etimo e sul significato letterario tradizionale della parola); della elaborazione e dell’adozione di una koinè linguistica siciliana, legate al nome di Paolo Messina (una koinè che coinvolga poeti e poetiche in un discorso comune tendente alla ricerca, nell’arcaico, di una parola nuova, autenticamente siciliana); dei rilievi fatti da Salvatore Di Marco circa l’esclusione delle letterature regionali, e in particolare di quelle dialettali, dalla storia della letteratura nazionale; del problema della scelta del linguaggio da adottare in poesia, problema la cui importanza non ha bisogno di essere sottolineata; che si tratti, insomma, dell’uno o dell’altro aspetto che caratterizza la poesia e la letteratura siciliana (così come emerge dal contesto sociale e culturale in cui hanno operato od operano gli autori presi in esame), il metodo adottato dal Nostro, nel suo continuo dialogare con la loro opera, scopre relazioni meno visibili e legami celati tra le realtà letterarie e culturali di cui si occupa, cosa che si traduce nella rilevazione di un segno di ricchezza e di fertilità critica, nella convinzione che lo scopo di una indagine non è quello di ridurre, ad una forzata unità, una esperienza che possiede molti specchi di rifrazione, ma di chiarire i motivi strutturali di queste diversità e di rilevare, se c’è, il sistema di relazioni sottinteso al discorso, senza azzerare le ragioni delle differenze e il quoziente di conoscenza che di volta in volta si dà.

In ciò soccorre il discorso critico una ricognizione bibliografica aggiornata, assunta non in senso polemico o antagonistico, ma come supporto e integrazione del proprio giudizio, allo scopo di confermarne implicitamente l’opportunità e la validità; ed anche se a volte si ha l’impressione che prevalga, nello spirito complessivo del discorso, un certo campanilismo regionalistico, il sentimento di una identità antropologica esclusiva, si evidenziano nello stesso tempo le qualità universali della poesia dialettale siciliana, con il riconoscere ad essa il merito d’aver restituito alla parola poetica una sua “originaria verginità di senso e di suono, di  colore e di segno”, alla luce anche di esperienze poetiche nazionali ed europee.

Quello di Marco Scalabrino, dunque, non è un orizzonte teoretico ed operativo esclusivo, ma comprensivo (nel senso che ogni aspetto dell’opera e dell’autore in esame illumina ed è illuminata dagli altri aspetti) nel quale la cronaca va a braccetto con la storiografia, l’esegesi testuale con le ragioni ideologiche, le chiose linguistiche con i rilievi semantici ed etimologici: nel quale, insomma, le analisi delle forme e dei contenuti si organizzano in una specificità aperta, mobile, non vincolante, in grado cioè di rilevare ogni verità biografica e storica, poesia e riflessione. Il tutto con un linguaggio privo di sofisticati idiomatismi, che importa il suo lessico e la sua sintassi, le sue metafore e le sue analogie da un ambito retorico comune ed accessibile, pervenendo in tal modo ad un discorso estremamente chiaro e comunicativo.     

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DI PIETRO Salvatore

 

salvatore di pietro

 di Marco Scalabrino

“Io vi invito alla purezza del verso, alla sacralità della parola che incide e trasforma; vi invito, amici poeti, a raccontare con la sintesi delle immagini il cammino delle vostre anime, la realtà che vedete, il mondo che sognate”. Salvatore Di Pietro.

 Sul numero di maggio-giugno 2000 di Arte e Folklore di Siciliadi Catania, a dieci anni dalla scomparsa, Lia Mauceri fra l’altro appunta: “Negli anni Venti fa le sue prime esperienze con il teatro siciliano, recitando anche nella compagnia di Giovanni Grasso. Nel 1926 lascia Pachino, il paese natio, e si trasferisce a Catania. Incoraggiato da Vitaliano Brancati divulga i suoi primi componimenti sul “Giornale dell’Isola”, scrive numerose canzoni con i maestri Giuseppe Terranova e Gaetano Emanuel Calì, pubblica nel 1936 il suo primo volume in versi siciliani, Acqua di l’Anapu, diviene collaboratore della RAI curando due programmi, “Sicilia Canta” e “Mungibeddu è ccà”, e in poco tempo un vero e proprio animatore culturale. Fu lui a invitare Salvatore Quasimodo a tenere un recital nei locali del Circolo Artistico, qualche mese prima che gli venisse conferito il Premio Nobel. A Catania il giovane Di Pietro si formerà poeticamente e culturalmente grazie anche all’incontro con il Cenacolo dei Trinacristi.”

Acqua di l’Anapu, che raccoglie i suoi componimenti giovanili, in particolare quelli che cantano la terra siracusana, era, asserisce Edocle Lessini, “una modesta raccolta di poesie in vernacolo. Mancava di esperienza e tuttavia si avvertiva qua e là la presenza di un poeta sensibile, attento agli atteggiamenti della vita e agli aspetti della natura; si sentiva la effusa fragranza del suo paese.”

Nel pezzo SENTIRE SICILIANO, pubblicato sul MANIFESTO della nuova poesia siciliana, edizione Arte e Folklore di Sicilia, Catania 1989, Salvatore Camilleri rammenta: “Verso la metà degli anni Quaranta ero solito intrattenermi in lunghe conversazioni con Francesco Guglielmino. Un giorno, a casa sua, il Guglielmino precisò che il problema della sicilianità della espressione non consisteva nella maggiore o minore vicinanza all’Italiano dei vocaboli siciliani, bensì nel sentire siciliano, nel vivere l’espressione sicilianamente, con spiriti siciliani. Volevamo rinnovare la poesia e il consiglio del Guglielmino che ci invitava a non allontanarci dall’anima siciliana era quanto mai opportuno e proficuo. Eravamo lì, giovani e non giovani, e se delle conquiste ci furono, si possono facilmente cogliere, ad esempio, nella poesia di Salvatore Di Pietro, in un confronto fra il primo e il secondo Di Pietro, quello nato dalle discussioni in casa Cesareo o in casa Biondi.”

E sul numero di marzo-aprile 2006 di Arte e Folklore di Sicilia, Camilleri circostanzia: “La corrispondenza con i poeti palermitani si era fatta frequente, soprattutto con Pietro Tamburello, Miano Conti e Paolo Messina. Le parole d’ordine che animarono le nostre lettere erano: svecchiamento e rinnovamento. Fu in questo periodo [il 1945] che l’Unione Amici del Dialetto, presieduta da Giovanni Formisano, invitò a Catania i poeti palermitani, guidati da Federico De Maria. Fu un incontro che ebbe un concorso di pubblico straordinario: ben cinquemila persone affollarono il Palazzo Chierici.” Tuttavia, commenta: “Non si discusse pubblicamente dei problemi della poesia siciliana, anche perché l’Unione Amici del Dialetto non aveva problemi, seguiva ciecamente la tradizione. I problemi li avevano i Trinacristi e li discussero separatamente col De Maria, col Tamburello, con Paolo Messina. Essi riguardarono la libertà metrica, la forma e il contenuto e, soprattutto, la necessità di rinnovamento, parola che a Catania divenne sinonimo di Trinacrismo. A chiusura della manifestazione Federico De Maria annunziò il bando di un concorso per un volume di versi siciliani, con scadenza il 31 dicembre 1945. Nel nostro gruppo nessuno aveva una macchina da scrivere. Scrivere a mano, come avevo fatto io con le poesie del mio volume, le poesie del mio gruppo non ne avrei avuto il tempo; ma almeno altri due volumi avrei potuto trascriverli. Accettai di trascrivere il volume di Salvatore Di Pietro, che me l’aveva chiesto per primo, e me la cavai in tre giorni; e così, con lo stesso ritmo, trascrissi i volumi di Mario Gori, di Enzo D’Agata e di Giuseppe Rapisarda Patanè. A metà dicembre già erano pronti i cinque volumi, che furono spediti al concorso. Oltre a Federico De Maria, faceva parte della commissione esaminatrice Vanni Pucci, poeta fra i più apprezzabili della prima metà del secolo. L’esito, aspettato con ansia da parte di tutti in Sicilia, finalmente arrivò nel mese di maggio 1946. Non ci fu un solo vincitore, ma tre e tutti e tre – un palermitano e due catanesi – ex aequo, e precisamente: Miano Conti, Salvatore Camilleri e Salvatore Di Pietro e, fra i pochi segnalati, altri tre catanesi innovatori: Mario Gori, Enzo D’Agata e Adamo Leandri.”  

I Trinacristi, per inciso, furono Salvatore Camilleri, che ne era l’animatore, Mario Biondi, nella cui sala da toeletta di via Prefettura si tenevano gli incontri diurni mentre di sera li attendeva il salotto di Pietro Guido Cesareo in via Vittorio Emanuele 305, Enzo D’Agata,Mario Gori ed altri, che già appartenenti all’Unione Amici del Dialetto se ne distaccarono, e il gruppo (dietro suggerimento di Biondi) si ribattezzò Trinacrismo, movimento i cui principi vennero illustrati in un articolo di Salvatore Camilleri apparso su Il Manifesto di Bari nel febbraio 1946.

“Dopo il “Premio Sicilia” 1946 che richiamò su di lui l’attenzione della critica italiana, pubblica – prosegue Lia Mauceri – la sua seconda raccolta, Alveare [con introduzione di Federico De Maria, Palermo 1947]. De Maria, Guglielmo Lo Curzio, Antonio Corsaro, Rosario Marchese lo indicano come una delle voci più intense di quegli ultimi anni della poesia siciliana.”

“Ho sott’occhi – stende Federico De Maria, nella recensione apparsa sull’Ora del Popolo del 23 luglio 1950 – l’Antologia del sonetto siciliano curata da Salvatore Camilleri, che è un documento vivo e la dimostrazione del fervore con cui oggi i poeti siciliani gareggiano nel patrio canto. [Quanto a] Salvatore Di Pietro, poeta fra i più completi e rappresentativi della nuova scuola siciliana, che la sua arte accuratamente umana e profonda, ricca di motivi palesò recentemente col volume Alveare, si resta col desiderio di leggere altro.”

Nel 1945, ragguaglia Salvatore Di Marco nel pezzo UNA OCCASIONE MANCATA uscito sul giornale di poesia siciliananumero di settembre 1988, Federico De Maria aveva “rilanciato la poesia dialettale siciliana attraverso affollati incontri con il pubblico nell’Aula Gialla del Teatro Politeama di Palermo. E nei poeti che vi partecipavano si era diffuso sin da allora il rifiuto della vecchia poesia dialettale e un bisogno ancora indistinto di cambiamento. Questi incontri, indetti dalla Società Scrittori e Artisti di cui De Maria era il presidente e organizzati da Ugo Ammannato e Pietro Tamburello, furono chiamati – per suggerimento di quest’ultimo – Ariu di Sicilia. Allorquando nel 1953 quel gruppo di poeti riunito da comuni idealità di rinnovamento letterario e culturale, constatata l’impossibilità di condurre in Sicilia un discorso di poesia nuova attraverso le pagine del Po’ t’ù cuntu!, pensò di darsi un proprio foglio di proposta e di battaglia letteraria, Pietro Tamburello volle ugualmente chiamarlo Ariu di Sicilia. Fondato nel 1954 da Pietro Tamburello, che ne assunse la redazione, Ariu di Sicilia fu un foglio di quattro pagine, che usciva ogni mese e che durò esattamente da marzo a ottobre di quell’anno. Visse il suo breve tempo in povertà di mezzi finanziari e fu un semplice inserto del Po’ t’ù cuntu! Nell’editoriale del primo numero Tamburello aveva annunciato i seguenti tre obiettivi: 1) promuovere una nuova fioritura di studi intorno alla letteratura siciliana, 2) rinnovare la tradizione alla luce delle ultime esigenze estetiche, 3) sottoporre a revisione critica le opere degli scrittori delle generazioni passate. I testi pubblicati furono in tutto 115 di 41 autori. Tra questi c’erano Ugo Ammannato, Miano Conti, Aldo Grienti, Paolo Messina, Carmelo Molino, Pietro Tamburello e Gianni Varvaro. Meno costanti ma presenti: Ignazio Buttitta, Salvatore Di Pietro, Nino Orsini, Elvezio Petix.”

Nel 1957 Aldo Grienti e Carmelo Molino furono i curatori della Antologia POETI SICILIANI D’OGGI, Reina Editore in Catania. Con introduzione e note critiche di Antonio Corsaro, questa raccoglie una qualificata selezione dei testi di 17 autori: Ugo Ammannato, Saro Bottino, Ignazio Buttitta, Miano Conti, Antonino Cremona, Salvatore Di Marco, Salvatore Di Pietro, Girolamo Ferlito, Aldo Grienti, Paolo Messina, Carmelo Molino, Stefania Montalbano, Nino Orsini, Ildebrando Patamia, Pietro Tamburello, Francesco Vaccaielli e Gianni Varvaro. Sia questa silloge che l’altra, l’antologia poesia dialettale di sicilia uscita a Palermo nel 1955 a cura del Gruppo Alessio Di Giovanni, ebbero al tempo eco nazionale e sono state antesignane del rinnovamento della poesia dialettale siciliana.

poeti siciliani d’oggi,assicura Salvatore Camilleri in prefazione a poeti siciliani contemporaneidel 1979, fu il libro che mise definitivamente una pietra sul passato. Le idee si erano fatta strada, avevano raggiunto i poeti in ogni angolo della Sicilia, anche i più solitari, i meno propensi a mutar pelle, e li avevano costretti a ragionare. E così, nell’ansia polemica del rinnovamento, all’eccessivo sperimentalismo formale e al gusto funambolico dei più avanzati seguì l’abbandono dell’ottava e del sonetto, divenuti solo strumenti propedeutici; a un più deciso lavoro sulla parola e sulla metrica seguì, da parte anche dei più retrivi, il rifiuto dei moduli tradizionali. Da questo travaglio, dai più avanzati che volevano romperla totalmente con il passato, ai moderati che volevano innestare le nuove idee nell’albero della tradizione, nacque la poesia siciliana moderna, anche grazie alla conoscenza che i più ebbero del simbolismo francese e dell’ermetismo italiano”.

Salvatore Di Pietro vi partecipa con quattro componimenti: MANU, AUTUNNU, VIA CRUCIS, CUSCINU DI FOCU. Antonio Corsaro nella nota afferente al Nostro così si pronuncia: “SalvatoreDi Pietro, spirito incondizionatamente cristiano riscatta i propri movimenti nella certezza dell’assoluto, crede nei diritti della fede e guarda con tenero amore alla vita. Nei suoi versi gli episodi si configurano secondo una mozione di sentimenti reali e una esigenza di bontà istintiva. Il Di Pietro cerca un aggiornamento degli strumenti espressivi, attraverso un processo interiore connesso alla sua sensibilità stilistica.”

Nell’articolo titolato la civiltà dei caffè, divulgato nel febbraio 1988 a Palermo sul numero zero del rinato Po’ t’ù cuntu!, Salvatore Di Marco registra: “Negli anni Cinquanta c’era a Palermo, in via Roma quasi all’altezza dell’incrocio con il Corso Vittorio Emanuele, uno dei caffè Caflish. Al piano superiore, una saletta con sedie e tavolini. Ebbene, in quel luogo e per anni – sicuramente dal 1954 al 1958 – nella mattinata di tutte le domeniche si riunivano i poeti del Gruppo Alessio Di Giovanni. Frequentatori erano, oltre a chi scrive, Ugo Ammannato, Pietro Tamburello, Miano Conti, Gianni Varvaro e altri. Vi arrivavano spesso Ignazio Buttitta da Bagheria, Elvezio Petix da Casteldaccia, Antonino Cremona da Agrigento e da Catania Carmelo Molino e Salvatore Di Pietro: insomma, i personaggi più significativi allora della nuova poesia siciliana. In quegli incontri si leggevano poesie, si parlava del dialetto siciliano, si discuteva di letteratura e di politica.”

“Nell’arco del decennio successivo – fissa Lia Mauceri nell’elaborato sopra citato – produce tre opere teatrali: Berretto goliardico e La colata al pantano, commedie in tre atti, e Lu suli di la sira, atto unico. Nel giugno 1957 pubblica Muddichi di suli, con traduzione in lingua di Antonio Corsaro. Ci sembra palese il tentativo di liberarsi dall’endecasillabo rimato, seppure ancora ci siano versi tradizionali. Nel 1962, per le edizioni Nuovo Cracas in Roma, vede la luce Tuta di villutu, con la traduzione in Italiano di Ermanno Scuderi e la lusinghiera prefazione di Giuseppe Villaroel, il quale qualifica quella di Di Pietro “poesia orchestrata modernamente e ricca di immagini”.

“Di Pietro – rileva Edocle Lessini – ha saputo trovare in modo definitivo le voci della sua poetica, quelle voci interiori con cui ha costruito Tuta di villutu, che è da considerare il suo capolavoro. Egli non può reputarsi l’antesignano della nuova scuola, ma è vero che ha elaborato e realizzato forme sintattiche, ortografiche e fonetiche proprie.”

“Intanto – rimarca Lia Mauceri – nel 1962 il poeta si è trasferito a Viterbo e nella nuova città ben presto si inserisce nella cerchia della cultura laziale: diviene presidente della “Tuscia Dialettale” e vicepresidente dell’A.N.PO.S.DI.”

Nel pezzo carte d’identità delle muse regionali, stampato a Roma sul numero di ottobre 1970 de La Fiera Dialettale, organo dell’A.N.PO.S.DI., Associazione Nazionale Poeti e Scrittori Dialettali, associazione di cui all’epoca Salvatore Di Pietro era il vicepresidente [presidente Francesco Possenti e direttore del periodico Luigi Olivero], lo stesso Di Pietro afferma: “In quest’ultimo dopoguerra si è avuta una splendida fioritura di poeti, di cui purtroppo una larga schiera sono scomparsi: a Catania, Giuseppe Nicolosi Scandurra, Santo Battiato, Pietro Guido Cesareo, Giovanni Formisano, Francesco Guglielmino, Vito Marino, Vincenzo De Simone; a Palermo, Ugo Ammannato, Miano Conti, Salvatore Equizzi, eredi del patrimonio lirico proveniente da Vito Mercadante e da Vanni Pucci [e ancora] Carmelo Molino, Santo Calì, Senzio Mazza, Salvatore Camilleri, Aldo Grienti, Nino Ferraù, Giovanni Isaja, Saro Bottino, Enzo D’Agata, Nino Pino, Mario Gori, Antonino Cremona, Ignazio Buttitta, Giuseppe Denaro, Giovanni Girgenti, Gianni Varvaro, Nino Orsini, Pietro Tamburello, Turiddu Bella e altri. La caratura di questi poeti autentici lasciamola stabilire in altra sede; a noi importa richiamare questi nomi, l’uno accanto all’altro, perché nei contemporanei non se ne offuschi il ricordo, perché essi brillino, nell’intero arco della poesia dialettale italiana, agli occhi dei confratelli poeti d’ogni regione.”

E sul successivo numero di gennaio 1971 di detta rivista [che nel frattempo aveva mutato denominazione in Voci Dialettali] si legge: “Organizzata dal vice presidente dell’A.N.PO.S.DI. Salvatore Di Pietro, in collaborazione con l’ENAL e con l’Ufficio Diocesano di Viterbo, il 21 dicembre [1970] ha avuto luogo la manifestazione sul tema: “Dialettalità del presepe” [una foto del Convegno, tenutosi giusto a Viterbo, viene pubblicata sul numero di aprile 1971]e si dà notizia che: “A Francavilla al Mare è stato proclamato il vincitore del premio nazionale di poesia “Modesto Della Porta”, che è risultato essere il poeta Salvatore Di Pietro.”

“Stava accadendo – segnala Vincenzo Di Maria, nel pezzo stampato sul numero di ottobre 1993 del giornale di poesia siciliana – che la crescita della società civile a Catania transitava in quei giorni [1970] attraverso il complesso tipografico appellato Edigraf, che avevo elevato a funzioni paladinesche di una cultura libertaria, propugnatrice di una resistenza accanita contro ogni forma di potere violento, [per cui] fatalmente si venne all’idea di ridare un giusto valore alla poesia siciliana. Ermanno Scuderi s’impegnò ad adottare, come libro di testo di un corso di studi che teneva presso l’Istituto Universitario di Magistero di Catania, un volume sui più noti poeti del genere scritto da me. L’unica condizione posta dal professore Scuderi fu l’inserimento dell’apprezzato poeta pachinese Salvatore Di Pietro. Infine i prescelti furono: Ignazio Buttitta, Santo Calì, Antonino Cremona, Salvatore Di Pietro e Carmelo Molino.”

“Pur vivendo a Viterbo – sottolinea Lia Mauceri – il poeta non ha mai perso i contatti con gli amici etnei, tant’è che il successivo libro di versi, Diu s’è fattu di ferru, esce a Catania nel 1974 per l’editrice Giannotta. Le poesie per la maggior parte ci sembrano di effetto anche per i temi proposti spesso a carattere sociale: l’emigrazione, il razzismo, la fame nel mondo … Nel 1975, per le edizioni Edigraf di Catania, esce La tratta di li brunni”.

“Sette poesie – esplicita Salvatore Di Pietro nella introduzione – per un grido di giustizia. Tutto sta nel gridarla questa ingiustizia, anche se in chiave d’amore, perché la poesia è amore. Sette poesie per far capire la causa che genera certi fenomeni, l’origine storica d’una piaga sociale millenaria. E le piaghe sociali si curano con l’amore. Date un tetto, date scuola e lavoro.”

“Nel 1977 – riprende Lia Mauceri – Pier Luigi Rebellato Editore [in Venezia] gli pubblica È nuovamente giorno, una raccolta di poesie dove ogni occasione, ogni fatto, ogni oggetto dà al poeta lo spunto per scrivere. I versi sembrano meno scattanti ma più maturi, le metafore più caute ma più consapevoli; insomma pur conservando coerenza ideologica e stilistica ci sembra di incontrare la maturità del poeta, nel suo tempo, nella senso della caducità, della morte ma anche in quella religiosità serena che crede in una croce, in un Cristo che è stato messaggero di vita.”

Arte e Folklore di Sicilia, numero di settembre-ottobre 1983, riferisce del 3° Convegno dei Poeti e Scrittori Dialettali Siciliani, svoltosi a Valverde (CT) fra il 29 settembre e il 2 ottobre 1983. Totò Gliozzo annota: “Quattro giornate dedicate all’arte, alla poesia e alla cultura, organizzate dal sodalizio Arte e Folklore di Sicilia di Catania e dal Comune di Valverde. Introdotti i lavori dal Cav. Alfredo Danese, presidente del circolo e direttore del giornale Arte e Folklore di Sicilia, Salvatore Camilleri, coordinatore e moderatore, ha dato inizio con la relazione su “La poesia siciliana del dopoguerra”, seguito da Nino Amico che ha proposto un’originale relazione dal titolo “Pupi e poesia”. Hanno fatto seguito le relazioni di Nino Cremona sulla poetica di Ignazio Buttitta, di Edocle Lessini su Salvatore Di Pietro, Carmelo Molino, Enzo D’Agata e Salvatore Camilleri, di Benedetto Maccaronio su Giuseppe Mazzola Barreca e Nino Cremona, di Orazio Ronsisvalle su Vincenzo Guarnaccia e Nino Orsini, di Paolo Messina su Pietro Tamburello, di Luisa Trenta Musso sulla poesia agrigentina del dopoguerra nonché di Maria Sciavarrello sui nuovi orientamenti della giovane poesia dialettale siciliana.”

A conclamare la fama e la stima acquisite a livello nazionale, nella antologia della poesia dialettale del Novecento, Le parole di legno del 1984, che la Mondadori inserì nella sua collana degli Oscar, i curatori, Mario Chiesa e Giovanni Tesio, inclusero i testi di Salvatore Di Pietro assieme con quelli di Ignazio Buttitta, di Santo Calì, di Nino Pino, di Vann’Antò e di altri.

“Aspetteremo sette anni – appura sempre Lia Mauceri – per un’altra opera, Pueta e tempu, edizione Greco, Catania 1984, con prefazione di Ermanno Scuderi. Il titolo ci riporta quasi meccanicamente a “Essere e tempo” (di Martin Heidegger), dove l’uomo è nel mondo, coinvolto in esso, nelle sue vicende dove le cose che ci circondano sono strumenti che non solo possono appagare i nostri piaceri estetici, ma possono venire visti sullo sfondo di un progetto totale. L’uomo in sostanza capisce se stesso quando sa cosa può fare di sé, quando sa cioè che cosa può essere. Di Pietro ha capito che il poeta nella storia dei popoli va passo passo col suo tempo. Nessuno può fermare il tempo, il sole, la luna; nel girotondo del mondo nulla può cambiare. Solo il poeta ha ali che possono dare voce ai valori, alla dignità dell’uomo, alla sua ricerca di Dio.”

“Il nostro Poeta – attesta Ermanno Scuderi – ha guadagnato tanto, procedendo nel tempo e col tempo, affrontando temi e modi sempre nuovi, preoccupato per sé e per gli altri di quel bene che non coincide necessariamente col benessere. Poesia scaturita da schietta meditazione, priva di artifici e lambiccamenti, che esce alata e parla il più stimolante linguaggio della fantasia, sorgivamente immaginoso, pregno di umori espressivi, talora con scabro accento, ma più spesso con suasivo timbro colloquiale a cui non è estranea la possibilità di ogni risorsa allusiva e analogica. Siano grandi o piccoli gli avvenimenti, il poeta ha sempre modo di presentare un dono di serena meditazione sui destini dell’uomo, usando il linguaggio semplice e nuovo della verità. Sua caratteristica è quella di interiorizzare il “sociale” e di conferire ai più intimi sentimenti una dimensione che va aldilà dei limiti individuali per toccare i vasti interessi della comunità. Un poeta modernamente gnomico e intensamente lirico: senza enfasi e lamentazioni, senza acrobatismi intellettualistici.” “Nella poesia programmatica Pueta e tempu, Nissunu si po’ fari Suli o Luna / e stari fora di stu girutunnu: / lu munnu, [Ntra ssu girutunnu giru anch’iu / pulicinedda di lu tempu miu], Salvatore di Pietro – dichiara Giovanni Tesio – attende alle constatazioni fondamentali della poetessa russa Marina Cvetaeva: “Dalla storia non si può uscire con un salto”, “La contemporaneità del poeta è la sua condanna al tempo.”

Seguono Serra Granni, atto unico, Sciascialà e Insegne luminose, commedie in tre atti, e due pubblicazioni: Immagini, del 1986, per le edizioni Mario Dell’Arco di Roma e presentazione di Giovanni Tesio, e Supra righi di zebra, del 1988, per l’edizione Pungitopo di Messina con la prefazione di Rino Giacone e postfazione di Corrado Di Pietro. “In Di Pietro la coscienza della rinascita – sostiene Giovanni Tesio – è coscienza poetica tout court. Si tratta di un mondo minuto, fatto di oggetti quotidiani investiti da un occhio che ne fa lievitare il senso. Occasioni disparate, ricorrenze e sicilianerie, pretesti in cui si annidano agguati poetici. Vi prevale una saggezza raggiunta e vagamente favolosa, qualche volta giocosa, e vi appaiono “voci di popolo” e begli aforismi di personale costrutto. La poesia di Di Pietro resta legata ai suoi colori, ai suoi commenti e al suo dialetto, che non si fissa in arcaismi di programma e, nella sua saggezza antica, resta un carretto di immagini e di sogni aperti alla speranza.”

Il Comune di Pachino (SR) pubblica gli atti del 2° Convegno di studi su “Dialetto e letteratura” tenutosi nei giorni 28, 29 e 30 aprile 1987. Il Convegno, che ha ospitato le relazioni dei proff. Giovanni Ruffino, Giovanni Tropea, Ermanno Scuderi, Giuseppe Gulino, Salvatore Riolo, Salvatore C. Trovato e altri, si è concluso con un recital dei poeti Corrado Di Pietro, Augusto Manna, Michele Sarrica e Salvatore Di Pietro. In un suo giudizio Ermanno Scuderi asserisce che: “Salvatore Di Pietro si mostra impegnato con la sua coscienza di uomo del tempo accogliendone ogni aspetto, positivo e negativo”.     

Nell’anno 1988 Enzo D’Agata cura su Arte e Folklore di Sicilia la pagina delle liriche siciliane. Fra gli autori che egli ospita: Carmelo Gagliano, Turi Lima, Giuseppe Nicolosi Scandurra, Peppino Denaro, Antonio E. Baglio, Carmelo Molino, Gianni Varvaro e Salvatore Di Pietro.

Con Giuseppe Giovanni Battaglia, Sebastiano Burgaretta, Salvatore Cagliola, Salvatore Camilleri, Giuseppe Cavarra, Nino De Vita, Salvatore Di Marco,Paola Fedele, Andrea Genovese, Rino Giacone, Alfio Inserra, Augusto Manna, Giuseppe Mazzola Barreca, Renato Pennisi, Stefano Puglisi, Michele Sarrica, Pietro Tamburello, Carlo Trovato, Salvatore Di Pietro è inserito nella antologia della poesia contemporanea in dialetto siciliano a cura di Corrado Di Pietro, LINGUA LIPPUSA, Venilia Editrice in Padova 1992: “I pachinesi Salvatore Cagliola e Salvatore Di Pietro, il catanese Salvatore Camilleri, il palermitano Salvatore Di Marco preferiscono, con le relative variazioni  personali, un tipo di lingua più agile, più aderente alla langue regionale. Nell’ultimo Di Pietro un precipuo interesse è rivolto all’atto creativo della parola, alla sua funzione catartica. Lo stile si è rarefatto e la poesia, svincolata dalle forme chiuse, è generalmente ricondotta al suo nucleo principale, all’idea portante che da sola regge l’architettura espressiva del componimento; questo induce a sgrondare l’opera da ogni orpello, a concentrare il pensiero in poche immagini forti ed icastiche. C’è, in Di Pietro, Tamburello ed altri, un accentuato cromatismo lirico che alla poesia siciliana proviene direttamente dall’esperienza simbolista francese [e loro] consegnano all’attuale generazione il modello di una poesia polimetrica con forti accenti lirici, emotivamente contenuta, dai ritmi interni ben calibrati, ricchissima di metafore. Mi sovvengono a questo proposito le parole di Salvatore Di Pietro: “La poesia è pensiero fatto immagine, immagine che racconta.” Sembrerebbe il proclama dei Simbolisti e in effetti la lezione di Baudelaire mi pare la più seguita dai poeti dell’ultimo quarantennio, forse perché più congeniale al carattere e alla cultura del nostro popolo. Il dialetto, mondato da qualunque impronta vernacolare, consente a Salvatore Di Pietro di alzare il discorso fino ai temi perenni della vita e della morte.”

Nato a Pachino (SR) il 18 agosto 1906, catanese di adozione, vissuto a Viterbo dal 1962, Salvatore Di Pietro muore nella città laziale il 13 febbraio 1990. Pochi mesi prima aveva completato un’ultima opera, Vangelu zingaru, che vide poi la luce in occasione del decennale della morte, con il patrocinio del Comune di Pachino. Salvatore Di Marco, sul numero di marzo 1990 del giornale di poesia siciliana, così lo commemora: “Una nobile figura di intellettuale siciliano è scomparsa. Lo conobbi nel lontano 1956. Era venuto a Palermo con Carmelo Molino e Corrado Di Fecondo per il Festival della Canzone Siciliana ed eravamo andati ad accoglierli alla stazione ferroviaria con Pietro Tamburello e Miano Conti. Da allora il filo dell’amicizia, della fraternità poetica non s’è mai interrotto.” E sul medesimo periodico Salvatore Cagliola così, fra l’altro, ne discorre: “Mi diede molti consigli sul taglio dei versi, sul parco uso delle rime, sulla forza espressiva del sostantivo non annacquata da soverchi aggettivi.”

A compimento di questo essenziale excursus sull’opera di Salvatore Di Pietro, una rapida rassegna di versi dai quali trarre il destro per talune brevi impressioni circa la scrittura del Nostro.

Nun sugnu servu vostru / né lu me patruni siti vui / ppi stu baciulimanu ca vi dugnu; Stu furmaggiu di crapa lu maritu / ccu sta vastedda dura; Li matri s’appenanu, / pirchì a li figghi ci crisci lu pedi / e ppi dari lu pani a li so’ vecchi, / partunu; Miditirraniu … Mastru di lu Sapiri e Civiltà … ni fa di sti picciotti / la tratta di li brunni; Li stiddi / grapunu lu pugnu e ccu lu palmu / misuranu lu scuru di l’omu; Nta lu pettu di li giacchi novi / l’acchiettu ppi lu ciuri nun c’è chiù; La casa è na cìchira granni: / chi ciàuru d’amuri e cafè; Mità a la morti, mità a Diu: / l’omu è crisantemu a mizzatria.

Premessi l’esteso impiego del metro irregolare e dei versi sciolti nonché la buona coerenza ortografica complessiva, “La Weltanschauung dei siciliani – assevera Corrado Di Pietro – è legata a una naturale religiosità”. Ecco dunque in Di Pietro la centralità del Cristo “non è alieno da drammatizzazioni”: Cristu ogni emigranti; C’è cu’ aspetta Cristu ca nun veni; Cristu cu li vrazza aperti ni la cruci / misura lu munnu, ed espresso altresì con “forti posizioni dialettiche”: Ssa nascita di Gesù chi vali?

La liricità, che sovente si combina a una fausta realizzazione degli esiti, è una felice costante: Lu tettu di lu jornu cadi / supra li casi vasci; Lu munnu, / sutta la balcunata di lu celu, / porta a ssa diva li so’ serenati; Ogni ciuri è un’isula di ciàuru; Lassala crisciri l’erba / se voi ca lu to pedi ciàura; Ni lu rilogiu di lu jornu / cascanu li lancetti di lu suli; L’albiri, / vistuti a novu di la primavera, / a vrazza aperti aspettanu / aceddi e nidi; La Via Lattia / è lu ponti ca cusi celu e terra; Ti visti all’umbra di lu virdi ficu / misa a lu stricaturi; Frivaru amanti di balletti e sciali … appunta a lu so pettu / lu ciuri di lu mennulu; Ni lu celu, / na schidina di stiddi ha fattu tridici; Pùddiri di nova primavera / jocanu ni la fàuda di la notti; L’umbra, ca quann’è l’ura di curcari, / scancia la stanza mia ppi sipurtura; La morti di lu poviru / duvissi veniri di Duminica: / ‘ccussì / pari ca la festa fussi ppi iddu.

Suli e luna, che ben si prestano ad una accentuazione del sentimento in senso lirico, sono fra i termini più assidui dell’intero suo corpus artistico. Eccone alcuni stralci: Oh, se ssu suli, / fussi lu me taroccu, ca ni mori / ccu la Sicilia a spicchi ntra lu cori; Un raggiu di suli, / ccu l’ucchiali di Vecchiu, / leggi un libru anticu, lu Vangelu; La luna figghia sonni a notti china; Ni la corda di lu celu / la luna stenni càusi e li stira; La luna è china / e ccu buttuna d’umbra e fintu argentu, / lu vesti di Pierò, stu vecchiu munnu; Lu scaluni di la casa mia / è addinucchiaturi d’argentu: / c’è la luna ca preja; Lu mari / figghia lu suli e poi lu lassa annijari; / celu e terra chianciunu pi iddu; Tra càuci di nuvuli, / un palluni di suli ròzzula / ntra na riti di celu tra du’ munti.

Lu suli tunnarotu / ‘nsanguna li tri mari a la mattanza / di gn’jornu novu.

La “j” è un segno che ha ripetutamente suscitato l’attenzione degli studiosi. Salvatore Giarrizzo, nel dizionario etimologico siciliano, definisce la “j” semivocale latina. Se viceversa fosse come da altri sostenuto una vocale, la “j” dovrebbe ubbidire alla regola di tutte le vocali, a quella cioè di fondersi col suono della vocale dell’articolo che lo precede, dando luogo all’apostrofo. Così come noi scriviamo l’amuri (lu amuri) dovremmo parimenti scrivere l’jornu, l’jiditu … cosa che nessuno si sogna di fare, appunto perché, non essendo la “j” una vocale non vi è elisione, e quindi non è possibile l’apostrofo, il quale si verifica all’incontro di due vocali e mai di una vocale e di una consonante. Non sottoscrivibile dunque l’impiego di: gn’jornu novu e di gn’jornu dura, rispettivamente nei testi MATTANZA e E BONASIRA.

Furna forni, labbra labbra, pagghiara pagliai, nummira nomi, coccia cocci, pila peli, muzzuna cicche, mura muri, pugna pugni, vastuna bastoni, chiova chiodi, chiuppira pioppi … Di regola il plurale dei nomi, sia maschili che femminili – certifica Salvatore Camilleri – termina in “i”; ad esempio: quaderni, casi, pueti. Un certo numero di nomi maschili terminati al singolare in “u” fanno il plurale in “a” alla latina; sono nomi che di solito si presentano in coppia o al plurale: jita, vrazza, corna, ossa, vudedda, gigghia, linzola, dinocchia, cucchiara. Molto più numerosi sono i plurali in “a” dei nomi maschili terminati al singolare in “aru” (latino arius) significanti, in gran parte, mestieri e professioni. Se ne elencano [tra gli oltre un centinaio enunciati in due pagine] i più comuni: aciddara, birrittara, ciurara, dammusara, furnara, ghirlannara, jardinara, libbrara, marinara, nutara, putiara, ruluggiara, scarpara, tabbaccara, uvara, vitrara, zammatara.

Frequenti, come già autorevolmente sottolineato, i riferimenti alla attualità, a fatti che la segnano implacabilmente, serialmente; i disastri ambientali e le emergenze sociali in risalto: E grapiti celu, / spurpati sti giardini ccu lu chioviri: / e stu beni accattatu ccu la vita, / portalu a li pisci … ca tra diluvi, frani e tirrimoti, / nun c’è lettu ppi moriri ‘n Sicilia; Chianciunu li vecchi / ca ssa minestra amara di pinsioni / ci la scippi ccu l’austerità; Siringi cimineri / droganu celi di plastica … Apostuli anticappati / mangianu minestra di catrami … A lu Priolu siccò lu mènnulu: / ristò na bumbunera svacantata; Li nanni crisciunu niputi, / ni lu me Paisi; Chiamatimi viddanu, ma lassatimi / stu Diu orizzuntali / campagnolu comu mia / ora ca li cimineri / sparanu a lu celu. Notevole l’invenzione del Dio orizzontale che, riprendendo una figurazione appena ricordata: Cristu cu li vrazza aperti ni la cruci, si pone alla pari, “orizzontale” per gli uomini e fra gli uomini e, nell’obbedienza del Figlio al Padre, si fa tramite di speranza, latore di vita celeste, in opposizione alla tracotante verticalità delle ciminiere, tese a svettare, a spingersi verso il cielo, a conquistarlo, ma che in questo atto di superbia, un po’ come la torre di Babele, creano piuttosto i miasmi scuri dell’inquinamento, la devastazione dell’ambiente e dell’uomo, i presupposti di un epilogo disperato.

“L’influsso dell’Italiano – osserva Salvatore Riolo – ha un grande ruolo nella dinamica linguistica inerente ai testi poetici. Per tale “interferenza” della lingua nazionale nel dialetto siciliano, il tessuto linguistico è quindi caratterizzato dall’intreccio, a diversi livelli e con diverse sfumature, del dialetto con l’Italiano, che affiora sotto la superficie dialettale.” Recepiamo l’assunto di Salvatore Riolo ed estendiamo la superiore osservazione a Salvatore Di Pietro, il cui ordito compositivo non è esente dall’influsso dell’Italiano: austerità, non badari, baratta, erba, fragili, tartufu, quadranti,bancarella, spazzatura, falsa, purizza, dispetti, biancheria, vulantini, schidina, estati, eccetera.

Influsso peraltro riscontrabile nell’uso del pronome nissunu, altresì nella variante nessunu: Nissunu si pò fari Suli o Luna, Nissunu è nnuccenti, Nessunu chi arranca, sebbene più in là si scorga nuddu: Nuddu ca ci dici, Nuddu si ‘nfurca chiù ppi lu rimorsu.

Fanno inoltre capolino svariate forme mutuate dall’Italiano nell’occorrenza di rendere il tempo futuro dei verbi. Nel dialetto siciliano, infatti, manca il tempo futuro e ogni proposizione pertinente a un’azione futura viene costruita al presente e al verbo si associa un avverbio di tempo [ad esempio: dumani vegnu]. “Come si può interpretare (quasi filosoficamente) – considera Paolo Messina – questa anomalia? Ecco lo spunto per un nesso fra lingua e cultura, modi di essere e di pensare. È la consapevolezza storica dell’esserci heideggeriano a produrre la riduzione continua del futuro a presente, all’hic et nunc, e ciò nel pieno possesso del passato ormai definitivamente acquisito. I siciliani sono padroni del tempo o, per dirla con Tomasi di Lampedusa, sono Dei. Ma essere (o ritenere di essere) padroni del tempo può voler dire dominare mentalmente la vita e la morte, avere la certezza della propria intangibilità solo nel presente, un presente che si appropria del tempo futuro per scongiurare la morte, ombra ineliminabile dell’esserci. Quello che conta è il presente. Essere e divenire, insomma, nell’ansia metafisica si fondono o si confondono”. E veniamo a Salvatore Di Pietro, il quale dall’Italiano adotta: vidrai, farannu, rinnuvarai, allintarà, chiancirò, cantarannu, scuprirai, sarannu, che sono forme del futuro estranee al dialetto.

Riportiamo nella loro interezza, prima di avventurarci in ulteriori considerazioni, due testi di Salvatore Di Pietro, DOPU NOVI LUNI e BANNERI DI MAJU, ben apprezzabili per la suggestione della parola, la perizia formale dell’esecuzione, il messaggio che ne scaturisce:

DOPU NOVI LUNI. La notti / ccu li chiova di stiddi a li scarpuna / surchia la terra / e aspetta ca lu jornu la simina / cu l’oru di lu suli. / La luna ingravida l’orti / e la virdura crisci, / ni lu ventri di li donni / cunta e crisci li figghianni. / La luna sa cuntari sinu a novi: / e dopu novi luni l’omu nasci, / e ppi iddu la notti surchia / e lu jornu simina;

BANNERI DI MAJU. Ccu la cruci a li spaddi, li cumeti / fannu di celu e Diu / a ssi banneri di lavuraturi / ca Maju stenni a lu so primu sùrgiri. / Ccu pinzeddi di spighi virdignoli, / li palummeddi in libirtà di volu / si tingiunu di suli: / mustranu a Maju ca la primavera / nun havi ali di pezza ppi bannera. / A lu primu di Maju / basta n’ala di palummedda in volu / ppi godiri e capiri la biddizza / di la libirtà ca ss’ala movi. / Basta ss’ala fragili, / ccu li culura di centu banneri, / pp’addumari lu senziu di l’omu / e fari palummedda lu pinseri / e vulari, vulari in libirtà.

Quest’ultimo testo subitaneamente ci trasporta al primo maggio di ogni anno, che per noi siciliani, a partire dal primo maggio 1947, è festa indelebilmente macchiata di sangue nell’eccidio di Portella della Ginestra. E ci offre lo spunto per accostare sul medesimo tema, succintamente, le soluzioni messe in atto da Salvatore Di Pietro, A lu primu di Maju / basta n’ala di palummedda in volu / ppi godiri e capiri la biddizza / di la libirtà ca ss’ala movi, a quelle concretate da Paolo Messina, il cui PRIMU DI MAIU nni la manica aperta di lu ventu vola sugli uomini, li vrazza / turciuti di la fatica / abbrazzati a la terra, da Vito Mercadante, per il quale nella ricorrenza della festosa giornata primaverile dei lavoratori tutti gli anni rinasce la spiranza biniditta chi nun mori, da Ignazio Buttitta che quella fatidica data ha immortalato: Nni lu Chianu d’’a Purtedda / chiusu nmenzu a dui muntagni / c’è na petra supra l’erva / pi ricordu a li cumpagni. / A l’additta nni sta petra / a lu tempu di li Fasci / un apostulu parrava / pi lu beni di cu’ nasci. / E di tannu sinu a ora / a Purtedda d’’a Jinestra / quannu veni ‘u Primu Maggiu c’è ‘u populu e fa festa. A proposito di Buttitta, i versi di Di Pietro Se lu cori è cori, / lu pani è pani, ni la me Sicilia e, ancora, E tu lu chiami pani evocano immediatamente Lu pani si chiama pani del vate bagherese, opera con traduzioni in Italiano di Salvatore Quasimodo e illustrazioni di Renato Guttuso che, nel 1954, diede avvio alla stagione dei suoi grandi successi.

Un dialetto, quello di Di Pietro e nostro, che risuona stabilmente di avvertiti, moderni accenni sociali: la bannera nun fa lu populu … chiantammu na bannera ni la luna / e non appi vita … mittiti pani a tavula: / la tuvagghia si fa bannera e populu; un munnu novu dintra la me cìchira: / lu biancu affratiddatu ccu lu nìuru / l’amaru ccu lu duci, il cui lessico nondimeno, antico di centinaia di anni, quando addirittura non di millenni, è sorretto da lemmi di origine greca, latina, araba, eccetera e permeato di straordinarie dovizia, versatilità, bellezza: quartara brocca, stazzuni fornace, fàuda grembo, trappitu frantoio, sprescia sollecita, strippa sterile, stricaturi pietra o tavola con scanalature su cui si stropiccia e insapona il bucato, scuzzetta berretto, pùddiri farfalle, mussìli guinzaglio, ghiotta zuppa, taddarita pipistrello, ammàtula invano, cìchira tazzina, ristuccia stoppia.

 

Quantu vasu, perché io baci. “Una particolarità del dialetto siciliano – dichiara Luigi Sorrento in nuove note di sintassi sicilianaè l’uso di quantu. Eccone degli esempi: Dammi u giurnali quantu u leggiu, Dammi il giornale così che io possa leggerlo, Aspetta quantu m’accattu i sicaretti, Aspetta che io mi compri le sigarette, Quantu addumu u focu, Solo per accendere il fuoco, Pirmittiti quantu passu?, Permettete che io passi?, Mi duni u vucabulariu quantu fazzu a virsioni?, Mi dai il vocabolario in modo che io faccia la versione? Il Traina [Antonino], nel suo diligente e copioso Vocabolario, segnala la nostra particolarità. Noi diciamo quantu vedo – scrive egli – per dire: ch’io veda, e ciò anche per la mancanza del presente soggiuntivo. Elenca poi [fra i tanti] i seguenti esempi: quantu viju, che io veda, quantu putissi trasiri, onde possa entrare, quantu lu purtassuru, acciocché lo portino.”

Ciàuru, cìnniri, celu, cima, ciuruti. Di Pietro usa la nostra “c” dolce strisciante senza avvalersi di alcun distinguo grafico che ne estenda la pronuncia. Segno, la “c”, derivante dal “fl” latino, flatus, flos, flumen e di conseguenza in Siciliano: ciatu, ciuri, ciumi, che altrove e in altri tempi è stato graficamente reso con la “x”, “xh”, “ç” o con “sc”, ma che, mutuiamo da Corrado Avolio in introduzione allo studio del dialetto sicilianodel 1882, “ultimamente, in una radunanza di dotti cultori di lettere siciliane tenuta a Palermo, si stabilì di trascriverlo con “c”.

Prossimi alla chiusura, una masculiata di residue notazioni:

la metatesi, dal greco metathesis, forma retorica che consiste nella trasposizione di lettere all’interno di una parola: crapa per capra, grapiri per aprire, in Di Pietro e, fra le altre più comuni, palori per parole, pruvuli per polvere, mi vriognu per mi vergogno, firnicia per frenesia;

Tra l’Apostuli to’, ‘ncinsiati; minestra ca ‘ncinzia vecchi e giuvini. “Nei dialetti siciliani il gruppo consonantico ns si trasforma in nz – evidenzia Salvatore Riolo – poiché la s nel dialetto parlato viene pronunziata sempre come z, per il principio della fedeltà alla pronuncia effettiva”. In Salvatore Di Pietro ritroviamo sia l’una sia l’altra modalità;

il testo LU BACIULIMANU, già pubblicato in La tratta di li brunni viene riproposto in È nuovamente giorno, benché con qualche errore di trascrizione: caldi in luogo caddi, calli, ditra in luogo dintra, dentro; e pure nel testo LA CHIAVI, che apre con l’allarmante interrogativo: A chi servi la chiavi di la casa, / si semu tutti onesti?, e chiude con l’amara deduzione: a lu sparari di lu scurrituri, / non è la porta ca mori, / ma l’onestà d’ognunu ca finisci / nta ssu giru di chiavi, oltre ai motivi di riflessione che suggerisce, campeggia qualche refuso di stampa: al quarto verso chivi anziché chiavi, così come nei testi LU GIUMMU, nel quale rinveniamo drita in luogo dritta, dritta, e Spillacci e Cartapista con spadi in luogo spaddi, spalle;

delizioso l’avverbio tanticchia, un tantino, una piccola quantità, che quantunque in una sua lieve variante, mi fa sovvenire un verso (che cito a memoria) di Pietro Tamburello: ogni palora persa nanticchia di Sicilia si ni va

la disattenzione ortografica, basta jsari lu vrazzubasta isari lu vrazzu, rispettivamente al quinto e al penultimo verso del testo BURGU in È nuovamente giorno; quella: nuddu ca dici cù fu, lu sacciu cu’ su’, riguardante il pronome relativo cui, chi; quell’altra: li sù favuli, li sò pedi ed anche: lu sò ciatu e lu so’ rusariu, attinente all’aggettivo possessivo;

l’impiego del pronome dimostrativo in luogo dell’aggettivo: chistu funirali, chistu campagnolu, ancorché, appropriatamente, ammenzu a chisti;

l’articolo indeterminativo “un”, il cui uso, se corretto nel dialetto siciliano davanti ad esse impura e a zeta: un spinguluni, un statu, un zeru tagghiatu, è, viceversa, censurabile qualora apostrofato: parin’umbrellu apertu;

un sottile (filo di) sberleffo su una tematica sempreverde: Mungibeddu si carrica la pipa / e industria e ponti, ci li fa di fumu.

 Puisia: pinseru fattu immagini, / immagini ca cunta e stuta / chiacchiri di cìnniri. Salvatore Di Pietro.

*

Marco SCALABRINO

Parleremo dell’arte che è più buona degli uomini

Saggi di poesia dialettale siciliana (due volumi)

Prefazione di Pietro Civitareale

Edizioni CFR, 2013



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